Le conseguenze sociali della mascolinità tossica

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“La cultura non fa le persone. Sono le persone che fanno la cultura.”

Chimamanda Ngozi Adichie, alla fine del suo famoso discorso “We should all be feminists”, esprimeva questo concetto basilare e a tratti ovvio. La maggior parte delle persone, però, si ritrova ogni giorno a essere quello che la società impone loro invece che viceversa.

Fin dalla nascita, a seconda del sesso (che si dà per scontato essere anche il genere), si viene educat3 e cresciut3 con obbiettivi precisi stabiliti dalla cultura e dalla tradizione: i bambini vengono cresciuti per sognare in grande, primeggiare, esprimere sempre la loro opinione perché è importante, non piangere, nascondere l’emotività, il dolore e la paura. Tutto ciò ha il fine di permettere loro in futuro di prendersi le responsabilità più importanti e più difficili in qualsiasi momento, anche se non riescono o non vogliono. Alle bambine, d’altro canto, viene insegnato a essere umili, gentili, accondiscendenti, a essere future bravi mogli e brave madri, a innamorarsi senza vivere in altro modo la sessualità (che deve essere repressa), a non poter ambire a troppe cose perché incompetenti, irrazionali, vittime dei loro ormoni. Le persone generalmente non si interrogano sul riconoscersi o meno nel loro genere, perché è spesso il genere stesso a individuarle. Se è vero che il movimento femminista ha iniziato questa decostruzione sociale, ne sembra però rimanere spesso esclusa una grande fetta: quella degli uomini (generalmente bianchi, etero e cisgender).

In un articolo del New York Times di Maya Salam, si legge:

“La mascolinità tossica è il risultato dell’insegnare ai ragazzi a non esprimere apertamente le loro emozioni, a dover essere duri tutto il tempo, e che qualsiasi altra cosa diversa da ciò li rende ‘femminili’ e deboli.”

Tutto ciò ha degli effetti decisamente importanti non solo sulla vita degli uomini – ingabbiati nella loro struttura di eterni capi, forti e distaccati – ma anche su tutta la società che è quasi interamente da loro dominata. Il potere, infatti, è sempre stato detenuto sulla base del sesso e della cultura a esso associata. L’uomo, per essere tale, deve essere principalmente forte, sia nel senso fisico del termine – perché il corpo mascolino è sempre stato un corpo muscoloso – sia soprattutto nel senso psicologico e culturale. Ciò si traduce in un modo di pensare logico e razionale: egli deve sempre essere distaccato e impassibile davanti agli ostacoli più grandi, un àncora a cui aggrapparsi, il risolutore di ogni problema, un competitore accanito che non si interessa delle sue relazioni perché lo scopo della sua vita è primeggiare. Proprio per questo motivo, è lui che può e deve detenere il potere, ancora oggi strettamente connesso ai soldi: dato che l’uomo ha uno status superiore, è sempre lui a doversi occupare delle finanze familiari. Farsi pagare da una donna è fuori discussione, perché la forza si dimostra adempiendo al compito di “portare il pane a casa”, di provvedere per tutta la famiglia e farsi carico di tutte le responsabilità che l’avere maggiori finanze comporta.

Se la mascolinità tossica affligge generalmente tutti gli uomini, ci sono però forti differenze dettate dall’intersezione delle discriminazioni: questo fenomeno, infatti, affonda le proprie radici nel suprematismo bianco, nel razzismo, nella queerfobia e nell’omofobia. Per esempio, parlando di come il capitalismo degli uomini bianchi abbia cambiato la percezione della mascolinità nera, Jordanna Matlon scrive:

“[Le diseguaglianze] hanno sempre più spesso reso ‘nero’ e ‘maschio’ come termini intrinsecamente contraddittori. […] La mascolinità nera, per quanto riguarda il mercato, ha valore soltanto come cliché. I cliché, in questo senso, non sono solo personificazioni di uno stereotipo. Essi sono ‘prodotti performanti’ che incarnano le espressioni massime delle condizioni di vita – della fama o della criminalità – che sono fuori dalla sfera del lavoro salariato e che affondano le proprie radici nel consumo sfrenato.”

Dopo aver trattato dell’esclusione degli uomini neri dal capitalismo e dal mercato del lavoro in quanto sistemi fortemente razzisti, Matlon continua dicendo:

“Il fatto che l’essere ner3 è causa e conseguenza della svalutazione economica ha reso l’inclusione nel sistema patriarcale capitalista molto allettante per gli uomini neri, un po’ come vincere a un gioco truccato contro ogni probabilità.”

La mascolinità tossica nera, dunque, si discosta da quella bianca soprattutto in termini di potere: il razzismo provoca la svalutazione economica, che non risulta però essere un incentivo per la liberazione di tutt3. Anzi, viene ricercata un’inclusione nello stesso sistema da cui si viene danneggiati, crollando nella legittimazione patriarcale e nella compartecipazione capitalista.

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Gli uomini asiatici, tradizionalmente visti come “deboli” ed “effeminati” (sempre secondo lo standard dell’uomo occidentale bianco), si trovano a dover fare i conti anch’essi con la svalutazione economica e lo sfruttamento nel campo lavorativo. Questi fattori rendono evidenti le disparità e aumentano le insicurezze e la pressione, dato che la maggior parte delle donne asiatiche, per anni, è stata esclusa dal mondo del lavoro, e quindi gli uomini sono ancora oggi la principale fonte di sostentamento della famiglia. In un articolo sul The Guardian, Matthew Salesses, parlando della visione patriarcale bianca interiorizzata nel rapporto con le donne, racconta cosa significa essere un americano asiatico:

“Per gli uomini etero asiatici americani, ciò significa voler essere desiderato nel modo in cui gli uomini etero bianchi sono desiderati. Se un uomo asiatico americano riesce a ottenere l’amore di una donna bianca, allora crede di poter avere un diritto sull’America in tutta la sua bianchezza ed eterosessualità e mascolinità, dopo tutto.”

Le donne, infatti, sono sempre viste come uno degli oggetti che garantisce l’accesso agli standard della mascolinità, e quindi al potere e al ruolo predefinito dell’uomo. Per un uomo non bianco, “vincere” una donna bianca è importante per rivendicare il proprio posto sul podio del patriarcato, dato che parte già svantaggiato a causa della sua etnia.

Rimane dunque evidente la forte radice razzista, omofoba e capitalista della mascolinità tossica, intesa appunto come caratteristica, che l’uomo attribuisce a sé stesso e ai suoi simili. Essa nuoce ovviamente agli uomini, in quanto persone non libere di poter esprimere naturalmente ciò che sono e sentono, ma soprattutto alla società, che è da loro e su di loro costruita. Tutte le persone che ci vivono, vengono perciò costantemente violate e atterrite da una cultura che continua a essere attivamente assemblata su queste discriminazioni.

Beatrice