La nostra stanchezza deve essere validata

Stanchezza
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Soltanto nell’ultimo mese, leggendo notizie provenienti da varie parti del mondo e ascoltando i commenti e le opinioni al riguardo, si è assistito all’ennesima dimostrazione di come il mondo sia tremendamente lontano dall’abbattimento di strutture oppressive e nocive. Stanchezza e arrendevolezza sono atteggiamenti più che normali di fronte a questi eventi, a episodi sociali e personali che sembrano sempre dire che non importa quanto si lotti, quanto ci si impegni, quanto si ascolti e si cerchi di capire, le cose sono destinate a non cambiare mai.

Discutere con persone che pensano che la questione palestinese – per citare un evento attuale a livello mediatico – non sia affar loro (o addirittura con chi appoggia la politica di Israele), con chi dice che “non si può più dire niente”, con chi difende il diritto alla satira sempre e solo su chi è oppressə e mai su chi opprime, con chi crede di poter esprimere la propria opinione su qualsiasi cosa “perché ne ha il diritto” senza però mai ascoltare, indagare, farsi domande, è una parte della lotta, ma non è un passaggio obbligatorio. Se le persone non sono disposte ad aprirsi, a mettersi in discussione e ad affrontare un cambiamento, allora cercare di mostrare loro un altro punto di vista significa solamente perdere energie. Sembra assurdo dover ancora urlare fino a perdere la voce per chiedere di riconoscere il proprio diritto a esistere, a vivere, a fare ciò che si vuole fare, a essere vistз e ascoltatз e valorizzatз; eppure non lo è.

Per esempio, consigliare a prescindere alle persone queer di fare coming out (o fare outing per loro) – perché ci sembra una cosa giusta e importante – non tiene conto del loro contesto di vita e della loro libertà personale, e anche di quanto possano essere stanche di dover dare spiegazioni ogni giorno a chiunque. Cercare di far parlare della propria esperienza di razzismo le persone nere non solo dimostra l’ignoranza e la mancanza della volontà di informarsi sulle condizioni sociali della comunità nera del nostro paese e sugli episodi quotidiani di violenza, ma anche il pensiero che le persone oppresse abbiano il perenne compito di educare, essere attiviste e lottare, vedendosi tolto il diritto a non esserlo (o anche a non voler esserlo sempre). Fare domande “per semplice curiosità” a persone transgender, chiedendo informazioni che sono facilmente reperibili con una semplice ricerca, evidenzia una carenza nel cercare di comprendere l’altrǝ e le condizioni della sua esistenza. Gli esempi, poi, possono essere infiniti.

In generale, ridurre una persona alla sua esperienza, alla sua caratteristica queer e/o alla sua oppressione è un atto discriminatorio e – per questo – stancante, soprattutto quando va ad aggiungersi a tutto ciò che si è costrettз ad ascoltare e subire ogni giorno. Leggendo anche solo i titoli dei media italiani (nemmeno così tanto diversi da quelli esteri) – dei quali non vogliamo fare né esempi né nomi – e ascoltando l’opinione pubblica frutto del patriarcato, del razzismo e del capitalismo più sfrenato, come può sentirsi unə survivor, che non ha denunciato, che l’ha fatto o che l’avrebbe voluto fare? Come può sentirsi quando tuttз alleggeriscono la situazione e/o lə colpevolizzano? In una società allo e amatonormata, come può sentirsi una persona nello spettro aroace e/o non-monogama nel crescere e vivere con chi dà e ha sempre dato per scontati questi concetti? In una società abilista, che guarda alle persone con disabilità solo con uno sguardo pietista (considerandole angeli o esempi di vita che ci fanno sentire fortunat3 e ci fanno rivalutare i nostri problemi), come può sentirsi chi viene consideratǝ solamente come una spinta a rivedere il proprio stile di vita e non come una persona in sé? Questo discorso – inoltre – è facilmente adattabile anche al fenomeno del “white saviorism”, per cui le persone bianche soprattutto occidentali credono di essere moralmente e civilmente superiori, per questo in dovere di esportare la propria cultura presso le popolazioni considerate “incivili” dallo sguardo eurocentrico.

La stanchezza, dunque, è una delle conseguenze emozionali maggiori a cui il vivere in questa società può portare, in quanto frutto di tutte le oppressioni, incomprensioni, mancanze di una comunità etero-allo-amato-normata, abilista, grassofobica, razzista, patriarcale e sessista. Prendersi una pausa dalla lotta, allentare la presa di una corda che stringe ogni giorno di più, sentirsi spossatз e deboli dopo aver fatto di tutto per venire ascoltatз, sono cose assolutamente normali che devono essere viste come tali. Ovviamente, la stanchezza va valutata nel contesto e a seconda delle situazioni personali – non si parla di stanchezza dunque legata a patologie – ma, in generale, è una sensazione che va rivista e, soprattutto, accettata. Non si è meno attivistз se si è stanchз.

Beatrice

Le dipendenze oltre lo stigma

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Le dipendenze patologiche sono varie e coinvolgono l’uso di sostanze o attività in modo compulsivo per riversarvi un malessere psichico e trovare sollievo – nonostante gli effetti poi possano essere ancora più negativi e portare a perdite di controllo e ulteriori disagi psicologici. In generale, la connessione più immediata ad una dipendenza è con l’abuso di sostanze: quelle più comuni sono “illegali”, ma ci sono anche tabacco, alcool, psicofarmaci e altro. Negli ultimi anni sono emerse anche molte dipendenze comportamentali, identificate sotto l’etichetta delle nuove dipendenze, connesse ad attività ludiche o anche quotidiane.  Si pensi infatti al gioco d’azzardo, lo shopping compulsivo, l’uso della tecnologia, il lavoro, il cibo, il sesso – anche se queste ultime sono più socialmente accettabili e, forse, meno facilmente riconoscibili, le cui cause ed effetti variano in base alla persona che ne è affetta.

Le dipendenze comportamentali e da sostanze sono accomunate da procedimenti simili a livello psicologico e neurologico e, in generale, sono associate ai meccanismi neurologici di gratificazione. Quando si soddisfa una dipendenza, infatti, avviene un forte rilascio di dopamina nella regione dello striato ventrale che gioca un ruolo fondamentale nella sensazione di piacere e nel meccanismo della dipendenza. Questo rilascio è influenzato dal tipo di attività che si compie, dalla sostanza e dalla via tramite cui la si assume. 

Si distinguono tra dipendenza fisica e psicologica: la prima comporta sintomi fisici, come nausea, vomito, mal di testa e insonnia. Il corpo, in brevissimo tempo, sviluppa un certo bisogno di assumere quella sostanza; di conseguenza la psiche non farà altro che pensare costantemente ad un modo per averla. Nel caso delle tossicodipendenze si può parlare sia di dipendenza fisica che psicologica. Le caratteristiche che sottendono le dipendenze comportamentali invece non sono ancora totalmente chiare, anche se vengono comunque accomunate dalla gratificazione percepita.

Sono stati identificati criteri generali per definire le dipendenze patologiche. Per prima cosa, c’è una scarsa capacità di controllo sull’uso della sostanza o sulla messa in atto del comportamento. Inoltre, deve esserci il craving, ovvero il desiderio incontrollabile di assumere la sostanza. Da qui deve verificarsi una compromissione del funzionamento sociale: si interrompono le quotidiane attività sociali e lavorative a causa del grande dispendio di tempo che si spende per soddisfare la dipendenza e si continua nonostante la consapevolezza di non riuscire a raggiungere i propri obiettivi di vita. Soprattutto nel caso delle tossicodipendenze, vi sono anche alcuni aspetti farmacologici: devono esservi tolleranza, che porta a intensificare il comportamento da dipendenza, perchè la stessa quantità non dà più lo stesso livello di piacere, e l’astinenza, ovvero sintomi fisici e psicologici che compaiono quando la dipendenza non viene soddisfatta. 

Le cause che stanno alla base dell’insorgere di una dipendenza sono svariate. Ad esempio, l’età è un fattore molto rilevante: in età adolescenziale, infatti, si è più predisposti all’uso di sostanze e a sviluppare una dipendenza. Sicuramente c’è anche una forte predisposizione genetica: avere un familiare che ha una dipendenza aumenterà il rischio di svilupparla – sia per i fattori ereditari, sia per l’impatto dell’influenza ambientale. Anche la presenza di un disturbo psichiatrico ne favorisce l’insorgere, anche se, nel caso delle tossicodipendenze, possono essere le sostanze a far insorgere disturbi psichiatrici. Altro fattori rilevante risiede nei tratti di personalità: ad esempio, spesso si usano sostanze per la tendenza a ricercare sensazioni forti (sensation seeking), oppure per impulsività e scarso autocontrollo. Infine entrano in gioco i fattori ambientali: i livelli sociali, economici e culturali hanno una enorme influenza, come anche il livello di stress percepito, lo stile di vita, le esperienze traumatiche, la vicinanza a contesti in cui è facile osservare il comportamento da dipendenza. 

Le tossicodipendenze sono quelle più conosciute e più rappresentate, e – di conseguenza – anche più stigmatizzate perché più evidenti. Infatti, la demonizzazione e l’illegalità di molte delle sostanze coinvolte fanno sì che il loro abuso diventi più immediatamente riconoscibile, cosa che non succede spesso con altri sostituti più facilmente fruibili. Non è la sostanza in sé ad assumere le caratteristiche di “droga”, ma l’uso che ne viene fatto. Come per moltissimi altri disagi psicologici, lo stigma a questo proposito esiste e si muove attraverso stereotipi e pregiudizi negativi che hanno un forte impatto sulle persone che ne soffrono, portandole a nascondere e ad aggravare la loro condizione. 

I media contribuiscono molto ad alimentare questa visione negativa delle persone affette da dipendenza: la lezione morale che si propongono di impartire – insieme alla figura stereotipata della persona che fa uso di sostanze che spesso sfocia nel comico, pericoloso, o con un’aria da spirito libero – non tiene conto di numerosi fattori psicologici che si nascondono dietro le sue azioni. Tutto ciò porta all’elaborazione di un giudizio negativo e delle relative reazioni del pubblico nei suoi confronti, che si tramutano poi nei pregiudizi sociali che tutt’ora si hanno: diffidenza, sfiducia nei trattamenti, discriminazioni e allontanamento. L’altra faccia della medaglia si ha poi con la romanticizzazione delle dipendenze: specialmente nei film e nell’ambiente musicale, c’è una tendenza a ritrarre l’abuso di sostanze in maniera particolarmente coinvolgente, non mostrandone i lati più veritieri e sofferti – non per questo affiancando loro un giudizio morale. In entrambi i casi, la rappresentazione non è reale e contribuisce alla disinformazione che alimenta stereotipi e pregiudizi.

In generale – come per molte patologie psicologiche e psichiatriche – lo stigma nelle dipendenze colpisce le persone che ne sono affette in maniera dilagante. Molte persone accusano la mancanza di forza di volontà, perché si sentono responsabili della propria condizione; lo stereotipo della pericolosità porta alla paura e all’isolamento sociale, spesso aggravando il problema, data la mancanza di una rete di supporto; le dinamiche di oppressione rendono, anche in questo caso, meno accessibili le cure per le persone povere, razzializzate e che sono in qualche modo marginalizzate dalla società. Diversi studi sottolineano come sia fondamentale, per chi soffre, ricevere un adeguato aiuto e un supporto sociale da parte delle persone del proprio ambiente di riferimento. Ciò infatti porta ad un maggiore senso di autoefficacia e di autostima e si correla positivamente con il benessere psicofisico e la risoluzione dello stato di dipendenza e negativamente con le ricadute. Per questo è fondamentale che le persone imparino a conoscere e a gestire queste problematiche, senza discriminazioni e pregiudizi, per essere in grado di aiutare in modo funzionale chi ne ha bisogno. 

Per sensibilizzare e portare una vera consapevolezza riguardo alle dipendenze, sarebbe opportuno averne una rappresentazione veritiera e completa senza giudizi morali. La mancanza di informazioni accessibili, inoltre, dovrebbe essere colmata: ancora oggi, troppo spesso si leggono notizie fuorvianti, che paragonano l’abuso di sostanze a un crimine o a un passatempo ricreativo. Vedere il proprio malessere psicologico riconosciuto e validato non è solo utile allo smantellamento di tutti i pregiudizi al riguardo, ma è anche un diritto che tutt3 dovrebbero poter avere.

Veronica, Irene, Beatrice e Giulia

I confini delle patologie: criteri e vissuti

I confini delle patologie
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Il concetto di “normalità” in psicologia è controverso e difficile da definire. Nella vita di tutti i giorni utilizziamo di continuo il termine “normale”, ma in realtà questo concetto si basa su principi completamente arbitrari dettati dalle norme della società, ignorando l’esperienza individuale. Per questo motivo, per l3 professionist3 della salute mentale è importante considerare il vissuto della persona per delimitare i confini delle psicopatologie, non attuando a priori una netta divisione da una presunta “normalità”. 

Un primo criterio utilizzato per identificare la patologia è sicuramente quello biologico. Se si associa un danno organico a una determinata malattia, risulta sicuramente più semplice delinearla. Qualsiasi diagnosi medica si basa su precisi parametri biologici e vitali, cosa non sempre possibile nella psicologia, in cui i disturbi hanno diverse declinazioni anche a seconda della persona che ne è affetta. Perciò, il criterio adottato è quello statistico: negli anni sono stati elaborati un gran numero di test e questionari per valutare specifici tratti o costrutti e per facilitare l’identificazione dei disturbi, misurando l’effettiva presenza delle loro caratteristiche distintive. Gli strumenti usati in psicologia sono stati “standardizzati” su campioni molto grandi e generalizzabili alla popolazione. Ciò ha permesso di stabilire le differenze di cosa è frequente nella popolazione generale e in quella clinica e di distinguere i tratti che caratterizzano il campione clinico da quello generale. Ogni tratto o parametro, se valutato all’interno della popolazione, presenterà un andamento “normale” o “gaussiano”, e quindi molt3 mostreranno livelli medi di quel tratto e poch3 avranno livelli bassi o alti. 

Se parliamo di psicopatologia, però, fare riferimento semplicemente alla “normalità statistica” è riduttivo, visto che i termini sono spesso definiti dalla società: è qui che entra in gioco il criterio sociale. In questo caso, ciò che è giusto o sbagliato dipende da fattori storici, culturali e sociali – spesso dettati anche dalle sovrastrutture di potere – e per questo una patologia psichiatrica o psicologica non è sempre definibile in modo univoco. Il DSM definisce, ad esempio, i disturbi di personalità come “un pattern abituale di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo”, chiamando infatti in causa la cultura di appartenenza e la dimensione individuale.

Per fare un esempio, quando pensiamo ad un disturbo schizoide di personalità, il cui comportamento cardine è il distacco e il disinteresse verso le relazioni sociali, dobbiamo fare molta attenzione anche all’aspetto culturale della persona: se stiamo parlando di una persona che vive in un paese che predilige il ritiro sociale, questo tipo di comportamento viene accettato dalla società e non devia da essa, quindi non costituisce un disturbo. Un altro caso è quello dei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione, alcuni dei quali, come l’anoressia nervosa o la bulimia nervosa, possono essere associati al digiuno o al rifiuto del cibo, criteri che non sempre definiscono una patologia. Per esempio, una persona di religione islamica di solito digiuna durante il Ramadan, ma non per questo soffre di un determinato disturbo. 

Dunque, il criterio biologico non è sempre presente o facilmente individuabile; quello statistico può risultare riduttivo se si pensa alla complessità di ogni persona, che esiste oltre il suo disturbo; e quello culturale non può certamente essere condizione sufficiente per determinare il disturbo stesso, altrimenti si farebbe una diagnosi ad ogni persona che è giudicata negativamente o che è vittima di stereotipi e discriminazioni da parte della società. Ciò che ancora manca nel delineare il confine tra normalità e psicopatologia è il criterio soggettivo: in generale, per definire un disturbo come tale, esso deve influire marcatamente e negativamente nella vita del soggetto. Infatti, si parla di “disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti”. 

L’ansia, in determinati momenti, è una sensazione condivisibile: prima di un esame, di un appuntamento importante, se dobbiamo fare qualcosa che non abbiamo mai fatto prima. Essa però diventa patologica se ci impedisce di condurre una vita serena e completa, se smettiamo di fare cose che ci piacciono per paura che accada qualcosa di brutto, adottando condotte di evitamento. Lo stesso discorso vale per la tristezza. Tutt3 la provano quando accade qualcosa che devia dalle aspettative o che sorprende in negativo, come un lutto improvviso. Se limitata al momento e al contesto, è funzionale e ci aiuta ad elaborare gli eventi di vita negativi che l’hanno scatenata. Se invece diventa costante e invalidante, offusca i nostri pensieri e non ci permette di andare avanti, si può trasformare in un disturbo dell’umore, e ciò vale anche per altre emozioni, come per esempio l’euforia.

Quando pensiamo all’ossessività ci riferiamo a un tratto della personalità che può essere più o meno espresso nella popolazione generale, sempre in base alla legge gaussiana. Però, il disturbo ossessivo-compulsivo è caratterizzato da ossessioni intrusive associate a un forte senso di disagio alleviato – solo momentaneamente – dalle compulsioni, gesti o rituali ripetitivi che non si può fare a meno di mettere in atto, con una conseguente perdita di tempo e un marcato malessere. I disturbi psicopatologici sono multifattoriali e si discostano spesso dalle loro caratteristiche distintive, adattandosi all’unicità di ogni persona, e sottendono una complessità tale che bisogna prendere in considerazione molteplici fattori per individuarli. Non è facile tracciare i confini delle psicopatologie, e non bisogna mai sottovalutare questo compito né assegnare etichette con leggerezza.

Veronica, Beatrice, Irene e Giulia

Fonti:

American Psychiatric Association, & American Psychiatric Association. (2013). DSM 5. American Psychiatric Association70.

L’accessibilità della terapia tra barriere e facilitatori

Accessibilità della terapia
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Negli ultimi tempi, complice la pandemia globale di covid19, la salute mentale è diventata sempre più importante nella vita quotidiana delle persone e, come conseguenza, si è molto discusso e sottolineato come essa debba essere più accessibile e sottratta da ogni pregiudizio che si porta dietro. In Italia, l’assistenza psicologica viene riconosciuta come diritto e viene quindi fornita dallo Stato tramite i Dipartimenti di salute mentale territoriali, che coordinano le cure e le attività riabilitative attraverso i CSM, i reparti ospedalieri e le varie cliniche pubbliche. In teoria, è necessaria solamente la ricetta del medico di base per accedere ai servizi del sistema pubblico nazionale in modo gratuito o comunque a prezzi vantaggiosi. I problemi però sono molteplici: i tempi sono spesso molto dilatati, date le lunghe liste di attesa e la poca flessibilità degli orari; la distribuzione dei centri sul territorio non è equa, costringendo le persone a dover cambiare città o addirittura regione per ricevere delle cure, cosa non sempre possibile; essendo la salute mentale sottovalutata, è spesso difficile trovare nel settore pubblico dei trattamenti specifici offerti da personale specializzato, cosa molto più facile nel privato ma molto meno accessibile economicamente. Proprio per questi motivi, essendo la gratuità della terapia psicologica legata solo al SSN, migliaia di persone non hanno quindi la possibilità di accedere a un servizio basilare e umano – per non contare anche altre discriminazioni, come quella del razzismo latente dello Stato verso coloro che non hanno ancora, per i più svariati motivi, i documenti italiani.

Chi non ha modo di accedere alle terapie pubbliche e a superare tutti gli step burocratici riservati solo a una parte dell3 cittadin3, deve rivolgersi quindi al settore privato. Qui le cure dipendono esclusivamente dalla possibilità economica, fattore fortemente limitante visti i costi elevati delle terapie psicologiche, psicoterapeutiche e psichiatriche: chi ha bisogno di anni di sedute settimanali può arrivare a spendere anche decine di migliaia di euro. Le conseguenze sono numerose: c’è chi si vede costrettə a diminuire drasticamente il numero di sedute necessarie (rendendo più difficile la continuità della terapia), chi deve trovare soluzioni economiche alternative come prestiti, mutui e quanto altro (aggiungendo ulteriore stress psicologico alla sua situazione), chi abbandona la terapia e chi non ci prova affatto. Secondo vari studi, la povertà affligge notevolmente la salute mentale, anche fin dalla nascita: essere cresciut3 in un ambiente povero contribuisce allo sviluppo di problemi di natura psicologica, oltre che alla creazione di uno svantaggio a livello di educazione, formazione e cultura. Inoltre, avere problemi finanziari aumenta notevolmente lo stress e la possibilità di avere disturbi di ansia. A tutto ciò, si aggiunge il fatto che lo stigma legato alle malattie mentali porta a discriminazioni soprattutto a livello lavorativo, rendendo molto più difficile trovare lavoro e negando spesso la possibilità di sostentarsi a chi già ha difficoltà invalidanti nel suo quotidiano.

La povertà affonda le radici in un sistema capitalista fortemente razzista, classista e discriminatorio: l’accessibilità delle cure psicologiche, che dipende per lo più dalla possibilità economica, si lega anch’essa a questo sistema. Inoltre, l3 terapeut3 sono fortemente condizionat3 dalla cultura e dalla società: la qualità dei trattamenti dipende anche dalla capacità dellə specialista della salute mentale di andare oltre determinati bias che derivano da studi spesso molto antichi, e quindi di stampo patriarcale, razzista e – soprattutto – solamente occidentale. Dunque, chi riesce a ottenere i mezzi per avviare la terapia, deve poi fare i conti con altrettanti ostacoli sociali e culturali: non mancano ancora oggi azioni “riabilitative” verso persone transgender, asessuali, omo e bisessuali, lesbiche, e via dicendo. L’orientamento sessuale e di genere che non si riconosce nell’eterocisnormatività è stato considerato un disturbo mentale fino a tempi relativamente recenti, e proprio per questo – ancora oggi – viene patologizzato sulla base dei pregiudizi. Anche se ci sono stati passi avanti in questo senso, molt3 pazienti denunciano una terapia troppo incentrata sul ricercare le motivazioni di questa “diversità” piuttosto che sulla persona stessa, sui suoi bisogni e sui suoi problemi. La situazione è simile per le persone grasse: verso di loro, lo stigma è molto forte in ambito medico, ospedaliero e psicoterapeutico. Questo porta a vedere l’essere grass3 come una colpa: mancanza di disciplina e motivazione, bassa autostima e incompetenza, spesso si ricerca a tutti i costi anche un trauma alla base, patologizzando una mente solo perché vive in un corpo non rispettato e non riconosciuto dalla società. La grassezza, poi, per l3 specialist3 della salute mentale, spesso diventa anche la sola e unica causa dei possibili problemi psicologici che vengono portati in seduta, contribuendo anche qui a far sentire la persona incompresa e all’abbandono della terapia.

Proprio per questo, non bisogna dimenticare gli effetti che la società ha sulle persone: i fenomeni discriminatori sono fonte di estremo stress e di disagio, perciò non è una sorpresa che, tra le persone che soffrono di problemi psicologici, moltissim3 appartengano a delle minoranze. Per esempio, la connessione tra razzismo e salute mentale è molto forte; le microaggressioni, le barriere sociali, la mancanza di eque possibilità, sono tutti fattori che influenzano fortemente l’ambiente in cui si vive, e non si può affrontare un percorso di guarigione se mancano costantemente i presupposti, i mezzi e le forze per farlo. Inoltre, moltissime persone razzializzate riportano una ripetizione di queste dinamiche anche nell’ambito della terapia, vedendo il loro vissuto di sofferenze invalidato dallə professionista di turno che dovrebbe invece avere il compito di creare un ambiente sicuro.

Oltre a snellire la burocrazia e a estendere l’accesso di un servizio fondamentale come quello sanitario a tutt3 – indipendentemente dal paese di origine, dai documenti, dalla possibilità economica – la terapia psicologica deve liberarsi da ogni costrutto sociale e culturale e deve avere come unico punto focale lə paziente come persona. L’accessibilità dipende dall’economia, ma anche dalla società e dalla cultura: bisogna lavorare sulla piena equità e uguaglianza di questo diritto, ma anche sulla liberazione da qualsiasi pregiudizio, dal sanismo culturale e istituzionale e dal bigottismo degli studi che si trova ancora molto nelle università.  

Beatrice, Giulia, Veronica e Irene

Stigma e salute mentale: la persona oltre il disturbo

Stigma e salute mentale
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Soffrire di disturbi mentali o altri problemi di salute mentale ancora oggi significa appartenere a uno dei gruppi più stigmatizzati e discriminati della società. Ciò non solo comporta lo stress di dover gestire i propri sintomi e le proprie difficoltà, ma significa anche dover convivere con l’ingiustizia di essere etichettat3 sulla base delle proprie patologie e di essere oggetto di pregiudizi per questo. Infatti, spesso si pensa che le malattie psichiatriche siano frutto dell’immaginazione, o che non siano significative quanto le malattie fisiche perché – a prima vista – non si riscontra una causa organica e non ci sono sintomi visibili. 

Dal greco “stigmata”, cioè “marchio” o “macchia”, la parola va a indicare il segno distintivo attribuito ad una persona in riferimento alla disapprovazione sociale di alcune sue caratteristiche personali. Il processo che porta alla formazione dello stigma inizia con un cue, un segnale che influenza la percezione e l’identificazione delle caratteristiche di una persona. Esso porta ad associare a quella persona uno stereotipo, ovvero un’opinione precostituita e rigida che ha una connotazione negativa. Ci sono molti esempi di ciò nell’ambito dei disturbi mentali: per esempio, si pensa che le persone siano responsabili del proprio disturbo o della propria mancata guarigione, oppure che siano pericolose e imprevedibili. Solitamente, a ogni disturbo corrisponde un diverso stereotipo: la schizofrenia è associata alla violenza e all’incapacità di prendersi cura di sé, mentre la depressione è associata alla pigrizia e all’abuso di sostanze, e via dicendo. Lo stereotipo porta al pregiudizio, che ha anch’esso una componente affettiva negativa e si associa a una risposta emotiva negativa – come la paura –  verso chi soffre di un disturbo mentale. Tutto questo porta poi alla discriminazione, reazione ostile sistemica verso il gruppo o la persona stereotipata: essa viene spesso evitata e isolata, e ha perciò meno probabilità di trovare un lavoro stabile e di stabilire relazioni sociali soddisfacenti.

Quando si tratta di un’idea generalmente condivisa, si può parlare di stigma sociale in riferimento al fatto che gran parte della popolazione ha dei pregiudizi verso le persone con disturbi mentali, e di conseguenza mette in atto condotte discriminatorie. La consapevolezza dello stigma sociale da parte della persona che ha un disturbo porta anche ad un auto-stigma, cioè all’interiorizzazione di esso. Ciò può causare una forte diminuzione dell’autostima e dell’autoefficacia: la paura di non avere valore contribuisce al mantenimento del disturbo stesso. Invece, si può parlare di stigma strutturale quando ci si riferisce alle barriere che ostacolano le persone con disturbi mentali: infatti, le istituzioni pubbliche e private limitano le opportunità e i diritti delle persone che soffrono o che hanno una storia passata di disturbi mentali (per esempio, è più probabile che perdano il diritto alla custodia di un minore).

Ricerche hanno dimostrato che una persona etichettata come “malata mentale” avrà meno probabilità di essere assunta e trovare un lavoro stabile, avrà quindi più probabilità di essere disoccupata o di avere uno stipendio più basso rispetto a chi soffre di disturbi mentali senza però aver ricevuto un’etichetta sociale. Le stesse difficoltà si riscontrano nel trovare una casa in affitto e nel ricevere un prestito. Inoltre, non è semplice per chi soffre di un disturbo mentale accedere ai trattamenti: da un lato ci sono le difficoltà economiche, dall’altro quelle legate allo stigma stesso, che porta a preferire di non chiedere aiuto. Un modo in cui lo stigma può essere appreso e mantenuto è attraverso i media, dai quali deriva gran parte dell’informazione – e disinformazione – sui disturbi mentali. Essi infatti contribuiscono a diffondere caratterizzazioni di persone violente, pericolose, incompetenti, inaffidabili, e in generale come personaggi con cui è difficile empatizzare. Se non si percepisce il supporto da parte delle altre persone, o addirittura c’è una continua svalutazione, non ci si sente in grado di riuscire bene nemmeno nelle attività quotidiane. Questo attiva un circolo vizioso che comporta il mantenimento della sofferenza mentale stessa. Come si può, allora, eliminare lo stigma? Per prima cosa bisognerebbe educare le persone a riflettere sui propri pregiudizi e privilegi: è necessario diffondere un atteggiamento positivo e la consapevolezza che dai disturbi mentali si può guarire, che essi possono essere gestiti e che le persone che ne soffrono rimangono comunque persone con diritti, logiche ed emozioni mai contestabili.

L3 operator3 della salute mentale hanno il ruolo fondamentale di promuovere questo atteggiamento e di fare psicoeducazione, perché la conoscenza delle condizioni che caratterizzano i disturbi mentali è fondamentale sia per superare i pregiudizi, sia per incrementare l’autodeterminazione di chi ne soffre. Tutto questo richiede anche un contributo da parte delle istituzioni, che dovrebbero salvaguardare chi ha un disturbo mentale e offrire pari opportunità di realizzazione personale, garantendo la possibilità – per esempio – di trovare un lavoro o un’abitazione stabile. Uno dei modi più efficaci per ridurre i pregiudizi e abbattere lo stigma è il contatto diretto con una persona che soffre di disturbo mentale. Alcune ricerche hanno dimostrato che anche un contatto minimo può aiutare le persone a capire che non c’è poi così tanta differenza tra loro e chi soffre di queste patologie. Infine, dato che anche chi lavora nel campo della salute mentale non è immune alle influenze dello stigma, è opportuno che l3 operator3 della salute mentale vengano adeguatamente istruit3: è possibile che, vedendo spesso pazienti che apparentemente rispecchiano lo stereotipo di un disturbo, i pregiudizi vengano rinforzati. È quindi importante che anch’ess3 imparino a comprendere la complessità cognitiva che si cela dietro ogni persona, andando oltre la malattia.

Veronica, Giulia, Irene e Beatrice

Bibliografia

Alexander, L. & Link, B. (2003). The impact of contact on stigmatizing attitudes toward people with mental illness. Journal of mental health, 12(3), 271-289. http://www.brown.uk.com/stigma/alexander.pdf

Angermeyer, M. C., Link, B. G., & Majcher-Angermeyer, A. (1987). Stigma perceived by patients attending modern treatment settings: Some unanticipated effects of community psychiatry reforms. Journal of Nervous and Mental Disease, 175(1), 4-11. https://psycnet.apa.org/doi/10.1097/00005053-198701000-00002

Byrne, P. (2000). Stigma of mental illness and ways of diminishing it. Advances in Psychiatric treatment, 6(1), 65-72. https://www.cambridge.org/core/services/aop-cambridge-core/content/view/EF630432A797A5296D131EC0D4D5D7AD/S1355514600008592a.pdf/stigma-of-mental-illness-and-ways-of-diminishing-it.pdf

Overton, S. L., & Medina, S. L. (2008). The stigma of mental illness. Journal of Counseling & Development, 86(2), 143-151. http://www.musicandresilience.net/sites/default/files/2018-04/overton2008stigmamentalillness.pdf

Antifascismo e femminismo: la Resistenza delle donne

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La storia della Resistenza è imprescindibile da quella del femminismo: la presa di coscienza collettiva antifascista passa da quella delle donne, e non ci sarebbe stata nessuna liberazione senza l’aiuto femminile – anche se molto spesso esso passa in secondo piano nel discorso storico del momento. Dopo essere state relegate al loro ruolo “naturale” e culturale dal fascismo di Mussolini, che le vedeva principalmente come mogli e madri, furono in migliaia a prendere le redini di un movimento atto alla liberazione da una dittatura che, oltre a essere politica, era anche culturale, sociale ed economica. Attraverso soprattutto la costituzione di gruppi sociali femminili e numerose azioni eterogenee, le donne sono uscite con forza dal paradigma fascista che era stato loro affibbiato, e hanno iniziato a lottare insieme agli uomini – ma anche contro di loro – per distruggere un sistema e un retaggio che le aveva violentate in tutti i modi possibili. La prima organizzazione partitica femminile si ha nel 1943 con i Gruppi di Difesa della Donna (GDD), i cui obbiettivi erano:

organizzare la donna per le conquiste dei propri diritti, come donna e come italiana, nel quadro della lotta che tutto il popolo
conduce per la liberazione della patria.

Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia (Insmli), Fondo Clnai, busta 14, fascicolo 37; Il Comitato nazionale dei Gruppi di Difesa della Donna al Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, 18 giugno 1944

Attraverso un uso sapiente della propaganda, di volantinaggio e manifesti, nel giro di pochi mesi nacquero decine e decine di questi gruppi in tutta Italia, nelle città e nelle campagne, accogliendo donne provenienti da qualsiasi ceto sociale con l’obbiettivo comune e necessario di resistere al regime e abbattere un sistema patriarcale opprimente. L’aiuto alle forze partigiane consisteva nell’assistenza generale dei combattenti (medica, sanitaria, di approvvigionamento, ecc.), delle loro famiglie, ma anche nel reclutamento di nuove forze e nella partecipazione a manifestazioni e scioperi. Importante è dunque segnalare lo sciopero del pane a Parma del 16 ‘ottobre del ’41, iniziato con l’attacco ai furgoni della Barilla che contenevano il pane e alle proteste per le vie della città. Fermate dalla polizia, le manifestanti vennero considerate – senza alcuna sorpresa – una ciurma di donne scalmanate e isteriche. Nel giro di un anno, i GDD diventarono 116, con 2299 iscrizioni che permisero di creare una struttura più complessa e ordinata, in modo da organizzare meglio gli aiuti, le forze e le strutture che servivano a mobilitare sempre più donne e sempre più persone alla causa antifascista e femminista. Arrivarono poi a essere oltre 70.000, secondo le cifre riconosciute dal CLNAI.

Fondamentale, poi, fu il ruolo delle staffette, non prettamente femminile ma a cui presero parte per la maggior parte donne: esse erano giovani e avevano il compito di permettere la comunicazione tra i vari membri e le formazioni delle forze partigiane condividendo informazioni e direttive. La loro età permetteva di avere una maggiore libertà e una minore possibilità di venire controllate: l’essere donna era ovviamente sinonimo dell’essere innocua. Carla Capponi partecipò a numerose rappresaglie e azioni armate contro i nazifascisti, Gina Borellini rischiò la vita almeno cinque volte per non rinunciare alla lotta armata e alla resistenza, Nilde Iotti fu porta-ordini e giocò un ruolo decisivo nell’organizzazione dei GDD e, in seguito, nella costruzione della Costituzione e della Repubblica Italiana. Se è impossibile fare i nomi e parlare di tutte le donne che hanno partecipato alla Resistenza, senza le quali essa non sarebbe stata possibile, è perché il loro ruolo è stato decisivo e quantitativamente numeroso: secondo l’ANPI, che afferma come siano numeri molto “in difetto” [“Tante donne, presumibilmente, non chiederanno il riconoscimento; a tante, materialmente, esso sarà ingiustamente negato”], ci sono state

35.000 le donne che operavano come combattenti

20.000 le patriote, con funzioni di supporto

70.000 tutto le donne organizzate nei GDD

4.653 le donne arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti

2.756 il numero delle deportate nei lager tedeschi

2.900 le donne giustiziate o uccise in combattimento

512 le commissarie di guerra

1.700 le donne ferite

L’antifascismo è una delle tappe iniziali del femminismo italiano, il punto di partenza della visione delle donne come persone degne di far parte di un movimento di lotta, compagne di cui fidarsi, combattenti arrabbiate e pronte a tutto per la liberazione dal regime nazifascista. Non ci sarebbe 25 aprile senza la Resistenza delle donne, e non ci sarebbe femminismo senza il movimento partigiano: oggi il fascismo vive ancora e va combattuto nelle diseguaglianze sociali, economiche e di classe, nel razzismo, nella politica cattolica che giura sul Vangelo e si nasconde dietro le “tradizioni da salvaguardare”, nella divisione del binarismo di genere e dei suoi ruoli convenzionali, nella mascolinità tossica dell’uomo virile protettore della famiglia e della patria, nel paternalismo statale e culturale e familiare, nella mancanza di diritti e di scelta per tutt3, nelle istituzioni di polizia, che più di tutto rappresentano il potere e il regime fascista. Non può esistere un femminismo che non sia antifascista: la lotta è di tutt3 e per tutt3 perché solo ” […] l’unione solidale, compatta, decisa, ci permetterà di riuscire a superare questo periodo” (Protesta e azione, «La Difesa della Lavoratrice», n. 3, 31 dicembre 1944).

Beatrice

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Il consenso e l’importanza di rispettarlo

Consenso
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Il consenso è un concetto molto ampio e allo stesso tempo molto personale. Infatti, sebbene debba avere delle caratteristiche specifiche per essere considerato tale, ogni persona è libera di porre i propri limiti in maniera completamente legittima. Per questo motivo, esso contiene sempre in sé la nozione di affermatività, ma varia a seconda del contesto, dei modi e dei termini in cui viene affrontato il tema.

Quando si parla di consenso, spesso lo si connette a una sfera di significato prettamente legata alla violenza sessuale, con lo scopo di demolire la cultura dello stupro e abbattere tutti quegli stereotipi che invalidano le storie dell3 survivors. In questo senso, il testo più autorevole in materia in Europa è la Convenzione di Instanbul che, all’articolo 36, paragrafo 2, recita:

Il consenso deve essere dato volontariamente, quale libera manifestazione della volontà della persona, e deve essere valutato tenendo conto della situazione e del contesto.

Molto spesso, in tutte quelle situazioni che si allontanano da quella che viene considerata una “vera violenza sessuale” – per esempio, quando compiuta da partner, quando non c’è penetrazione, quando le reazioni sono quelle del freezing (bloccarsi) o fawning (compiacere), e via dicendo – la nozione di consenso viene utilizzata contro la vittima. Per esempio, la mancanza di un secco “no” viene vista come un “sì”, la relazione con l’abuser viene usata per giustificare la violenza, viene insomma invalidato il vissuto della persona interessata arrivando a considerarla persino una bugiarda. A questo proposito, in un articolo per Il Post, la giornalista Giulia Siviero parte da un caso di cronaca e descrive cosa sia il consenso paragonandolo a una tazza di tè: se si cambia idea non si deve essere costrett3 a berlo; se ci si sente in pericolo allora non si sceglie liberamente di berlo; se alla domanda “vuoi del té?” non si riceve un “sì” come risposta, allora il té deve rimanere sul tavolo. Per tutti questi motivi, a livello legislativo si stanno facendo dei passi avanti per includere sempre più la nozione di consenso nella valutazione dei reati di violenza sessuale: dal “No means no”, ci si dirige sempre più verso il “Yes means yes”, dove la cosa più importante è l’esplicitazione e la libertà dell’azione di affermazione.

Il consenso deve essere perciò sempre esplicito, libero (qualsiasi forma di coercizione ne nega la validità), informato (qualsiasi forma di inganno ne nega la validità), ribadito ogni volta e in ogni diversa situazione (perché acconsentendo a una cosa non si acconsente automaticamente a tutto). In particolare, una cosa che non viene abbastanza detta è che non solo non è obbligatorio darlo in tutte le circostanze, ma che è possibile anche non darlo mai: se una persona non vuole essere coinvolta in nessun modo in interazioni appartenenti all’ambito sessuale, aspettare che prima o poi cambi idea o invalidare la sua posizione è anch’essa una forma di violenza. Il consenso ingloba in sé anche il concetto di libertà e, in quanto tale, si deve essere liber3 anche di negarlo in maniera definitiva senza subire pressioni al riguardo.

Uscendo dalla sfera prettamente di ambito sessuale, si può dire che ogni invasione del campo fisico – il cosiddetto “spazio personale” che la persona vuole mantenere nelle interazioni sociali – e psicologico dell’altrə deve essere preceduta dal permesso di essere attuata. Per esempio, questo è ben visibile nel fenomeno del catcalling: le molestie di strada sono, appunto, molestie, proprio perché – oltre all’oggettificazione sessuale e allo squilibrato rapporto di potere che di solito c’è tra chi la fa e chi la riceve nella società patriarcale – non c’è consenso. Infatti, se non si conosce la persona e se non le si chiede prima il permesso di avvicinarsi e parlare, si sfocia nella violazione della volontà e dei limiti imposti dalla persona in questione.

Il discorso si può complicare se si prendono in considerazione, per esempio, le culture ad alto contatto: tutti quei contesti in cui c’è più contatto fisico, ci si avvicina di più nelle interazioni sociali e ci si guarda di più, come per esempio succede nelle aree del Sud America o anche in Italia. Per chi vede l’essere toccatə come un’invasione del proprio spazio personale, è difficile crescere e adattarsi a queste usanze per cui anche solo un primo incontro inizia con una stretta di mano o, in maniera più informale, con due baci sulla guancia. In questo senso, sono spesso queste persone a doversi conformare alla maggioranza – un po’ come succede per tutt3 quell3 a cui la società dice che il consenso, prima o poi, deve essere dato per forza, almeno in alcune occasioni.

Riflettere sui limiti e sulle concessioni che riguardano gli spazi fisici e mentali è molto importante, perché porta a guardare tutto da un’ottica che prescinde dalle nostre volontà e da quello che noi vediamo come giusto o sbagliato: i termini del consenso variano da persona a persona, da situazione a situazione, e devono essere rispettati anche quando sono dei “no” definitivi. Qualsiasi tipo di pressione e di coercizione, sia in ambito sessuale che intimo e personale, è una forma di violenza e di violazione. Normalizzare le discussioni sul consenso significa anche applicarle a tutti gli ambiti di interazione fra persone, per far sì che il volere e il non volere di tutt3 venga sempre rispettato e non ci si senta più costrett3 a dover oltrepassare i propri confini perché è il contesto che ci dice così.

Giulia

La politica non è una questione personale

Personale politico
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“Il personale è politico” è la frase che forse più si sente all’interno dei movimenti femministi e delle lotte contro qualsiasi tipo di discriminazione. Giustamente, questo motto ha portato alla luce problemi reali e concreti che prima rimanevano solamente nella sfera privata, dando loro la possibilità di essere al centro di politiche e soluzioni collettive. L’esperienza personale è divenuta con gli anni sempre più una questione di cui si dovrebbe parlare per fare in modo che, in futuro, altre persone non abbiano più bisogno di lottare per superare e normalizzare determinati aspetti, ma spesso essa si è presa uno spazio troppo centrale all’interno di un discorso che deve risultare, invece, globale. Il privato è così diventato una faccenda di cui si deve discutere in tutti gli ambiti – politici e non: non ci può essere politica che non guardi ai diritti sociali e umani di tutt3, e (per ora) non ci può essere società senza una visione politica. In questo contesto, la propria esperienza deve essere ben calibrata sia sulla situazione collettiva che sul problema vero e proprio. La politica sociale deve essere una questione personale, ed è importante rimarcarlo per fare in modo che l’interesse collettivo diventi una questione individuale: il benessere di tutt3 passa da come le cose vengono viste personalmente, dall’informazione che si cerca, dai punti di vista che si risaltano, dalle decisioni che si prendono ogni giorno, dalle parole che si dicono e non.

La visione della politica come insieme di idee e azioni deve riguardare l’esperienza e la dignità della persona altra: la sfera personale è valida e necessaria alla costruzione dell’identità e dell’ideologia politica, ma c’è fortemente bisogno di sradicare una visione centrale di sé nel discorso sociale se si vuole davvero un cambiamento decisivo per tutt3. L’etnia, la classe, la razza, la religione, la sessualità, il genere, la posizione geopolitica, l’età, la disabilità, la specie, sono tutti elementi che vengono inclusi nelle decisioni politiche di qualsiasi paese e, soprattutto negli Stati che (ingiustamente) hanno più peso rispetto ad altri, queste decisioni sono relativamente in mano al popolo. Guardare al proprio interesse e cercare le soluzioni ai soli problemi personali porta all’avanzata populista nella maggior parte dei paesi democratici, la cui causa principale è l’evidente rafforzamento della visione individualistica data dal capitalismo. Alle ultime elezioni presidenziali negli USA, il 61% degli uomini bianchi e il 55% delle donne bianche hanno votato Trump, contro i rispettivi 19 e 10% di uomini e donne nere e 36 e 30% di persone ispaniche. Nel 2016 questo tipo di voto ha portato all’adozione di misure estremamente razziste e islamofobiche, nascoste da una politica nazionalista che lotta per la sicurezza della cittadinanza tramite provvedimenti discriminanti: la chiusura dei confini USA a chi proveniva da Iran, Iraq, Syria, Yemen, Sudan, Libya e Somalia; l’uscita dal fondamentale accordo di Parigi sul clima della nazione più ricca e inquinante del mondo; l’appoggio a uno Stato illegittimo e violento come Israele a discapito della Palestina. Lo stesso discorso si potrebbe fare per il Regno Unito analizzando gli election polls del 2019: le donne più giovani under 35, più preoccupate per la loro situazione economica e lavorativa, hanno mostrato maggior interesse politico verso il Labour Party della loro controparte maschile e, in generale, gli uomini sono molto più propensi a votare i Conservatives. Basare ogni tipo di lotta solamente sulla propria esperienza porta a movimenti che lottano solo a metà, come il femminismo bianco (solitamente basato sui problemi delle donne bianche borghesi abili) o quello che si dimentica delle oppressioni capitaliste, in cui non vengono incluse le esperienze di chi non ha gli stessi mezzi (sociali, economici, culturali e fisici), o ancora al fenomeno degli uomini neri che combattono quotidianamente contro l’oppressione razzista ma non riconoscono quella delle donne nere.

Molti attivismi sembrano voler continuare a lottare seguendo la scia del motto “il personale è politico”, per cui parlare di sé diventa un passo fondamentale e quasi imprescindibile per poter davvero prendere parte al movimento: chi ha il privilegio di poter parlare, chi ha la possibilità, la volontà e il coraggio, deve farlo. In realtà, però, si dovrebbe sempre più imparare a mettere da parte l’esperienza, la visione e il passato personale ogni qualvolta nel discorso vengano incluse più e diverse identità, per evitare di fare lo stesso gioco di esclusione e oppressione che spesso si subisce. La rabbia di non poter abortire liberamente deve includere la consapevolezza e la rabbia di chi invece ha dovuto e ancora oggi deve abortire per forza; il diritto a una sessualità libera non può essere amato/allo/etero-normata ma deve decostruire queste sovrastrutture, non solo il patriarcato e il bigottismo religioso; la laicità non può non considerare il rispetto e il diritto a credere e a praticare tutte le religioni esistenti, senza giudicare né deridere né credersi superior3; parlare del gender gap in ambito lavorativo non deve essere una lotta borghese e capitalista per allargare il tavolo dei potenti, ma deve pensare alle esperienze della maggior parte delle donne che perdono lavoro per la mancanza di una politica familiare ed economica e per quelle transgender che non lo trovano affatto. Centrare la propria visione porta poi ad avere, anche all’interno del femminismo, chi parla di “corpo in vendita o in affitto” quando si parla di prostituzione e sex work, che passa ovviamente in secondo (ma anche terzo) piano nei discorsi di denuncia, per una visione errata delle puttane come frutto del patriarcato.

La crescita individuale è il primo passo da fare nell’ambito di qualsiasi lotta sociale e culturale, ma è importante che il passo successivo sia staccarsi da sé e arrivare a far parte della collettività, di una visione più globale che include tutte le esperienze personali e tutti i bisogni delle persone: la politica interessa tutt3 e tutt3 dovrebbero interessarsi alla politica, ma bisogna iniziare a prendere le decisioni politiche (e non) spogliandosi dei privilegi che si hanno e iniziando a pensare alla società tutta, alla giustizia sociale, all’equità, all’importanza di una liberazione che coinvolga davvero tutte le persone in qualche modo oppresse.

Beatrice

Identità tra esistenza e resistenza

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Come definire l’identità? Essa è l’insieme di tutte le cose che ci appartengono, che sentiamo come nostre caratteristiche e come aspetti che ci definiscono. Essa rappresenta la nostra interiorità ma si scontra con tutto ciò che è fuori da noi. Infatti, un ruolo fondamentale nella costruzione della nostra identità viene giocato dal mondo esterno: riconoscere ciò che non siamo ci aiuta anche a capire ciò che siamo, ma al tempo stesso definisce anche ciò che possiamo diventare – almeno in parte.

Secondo Jacques Lacan, un momento fondamentale nello sviluppo della psiche è il cosiddetto stadio dello specchio: l’infante, davanti appunto a uno specchio, riconosce che la figura riflessa è il suo io, e capisce anche che il suo io è separato dal resto. Questa dicotomia tra l’io e l’altro è molto importante, perché stabilisce i nostri confini e contorni sia a livello fisico che mentale. Infatti, ciò che avviene è la base della costituzione della propria identità, che permette di ritrovarsi in un proprio mondo interno e comprendere come poter interagire con l’esterno senza esserne sopraffatt3. Partendo da questa interezza, si dovrebbe essere poi in grado di costruire e riconoscere man mano ciò che una persona è, ciò che vuole e ciò che fa. Ci sono, però, degli avvenimenti e delle condizioni che hanno degli effetti molto negativi su questi processi, e che influenzano in vari modi il percorso di gran parte degli esseri umani, magari fino al punto di farli sentire come se fossero tornati a uno stadio ancora precedente: senza identità e con un io talmente frammentato da non riuscire a riconoscerlo.

Nella società odierna, sono moltissimi i fattori che influiscono sulle possibilità di esplorare e definire la propria identità. Essi agiscono non solo a livello individuale, ma soprattutto a livello sistemico: la concatenazione di oppressioni che molt3 vivono sulla propria pelle ne sono un palese esempio, perché prendono le persone e le chiudono in delle scatole preconfezionate da tutti i pregiudizi che si portano dietro. Ma non solo, queste discriminazioni pongono determinate parti di popolazione in condizione di svantaggio già in partenza, non dando loro il tempo e lo spazio necessario per definirsi come più vogliono e ritengono giusto per sé. In quest’ultimo caso, per esempio, la classe sociale influisce in maniera particolare, perché comporta tutta una serie di privilegi o svantaggi importanti: l’accesso all’educazione, il lavoro e il tempo libero, il grado di ricchezza e così via. Ovviamente, chi appartiene a un ceto più alto, ha molti più modi e possibilità per capire cosa desidera nella vita e per ottenerlo. Al contrario, chi è costrettə a usare tutte le proprie energie per un arduo sostentamento, vede il numero delle sue opzioni ridursi sempre di più, perché il mito del “volere è potere” non esiste in un mondo pieno di disparità volte a preservare il privilegio di poch3.

Il classismo e l’oppressione capitalista, inoltre, sono strettamente connesse a molti altri tipi di discriminazioni, tra cui il razzismo. Il costrutto sociale della razza, creato dal colonialismo e dalla supremazia bianca, ha importanti ripercussioni ancora oggi che vengono riverberate in ambito lavorativo, medico, pubblico e privato. Alle persone non bianche viene assegnato di default un ruolo che ne pregiudica l’accesso a determinate aree sociali, che le porta a subire aggressioni e oppressioni, che le racchiude in un contorno che non appartiene loro ma in cui vengono costrette a rientrare. Tutto ciò, anche se in modi diversi, accade anche rispetto ad altre caratteristiche che vengono stigmatizzate: l’appartenenza a una religione, l’aspetto fisico, il genere, più in generale tutto ciò che viene considerato non conforme ai canoni dell’identità considerata “normale”.

Assemblare il proprio io al di fuori degli schemi sociali è un’impresa difficilissima – se non impossibile – dal momento in cui essi condizionano il proprio modo di sentirsi rispetto anche a cose che magari si è o si vuole essere. Così, non può esistere una completa e totale libertà nel decidere come vestirsi ed esprimersi nell’apparenza, a causa degli standard fisici di bellezza e della grassofobia (che condiziona anche il rapporto col proprio corpo e causa problemi anche nell’indagare altre parti di sé); nello scoprire un proprio modo di vivere la sessualità oltre la sfera etero, allo e mononormata, perché si è oggetto di costanti pregiudizi o – come nel caso dell’asessualità – si viene invisibilizzat3 e considerat3 sbagliat3 tutto il tempo, mancant3 di una parte che viene costantemente presentata come facente parte di tutt3; nel ricercare una propria identità di genere al di fuori del binarismo uomo-donna, della dinamica per cui è nel giusto solamente chi si attiene alla regola che il corpo definisce e definirà sempre chi sei. Se si parla di abilismo, si può osservare anche come una persona con disabilità fisiche visibili venga immediatamente infantilizzata e vista come non capace di avere una propria espressione oltre quella della disabilità stessa. Se si parla di sanismo, mettendo da parte il modo in cui i disturbi mentali influenzano la concezione del proprio io, si è anche evidenziato come lo stigma abbia un impatto talmente forte sull’individuo che, quando si comprende di avere un problema di questo tipo, si interiorizzano moltissimi pregiudizi che esistono riguardo l’essere affett3 da queste malattie e la propria visione di sé viene inficiata dal crescente senso di inadeguatezza e incompetenza.

Perciò, è evidente come le discriminazioni sociali rendano impervio e spesso blocchino il percorso verso la scoperta della propria identità e dei confini personali in cui più ci si sente a proprio agio. Proprio per questo motivo, spesso l’autodeterminazione e la resistenza diventano il fine dei processi espressivi da questo punto di vista: si ha voglia di far sentire la propria voce per rompere le catene dei pregiudizi, di mettere le proprie azioni al servizio della libertà. Anche se la situazione è questa, è lecito chiedersi chi saremmo se non fossimo stat3 incasellat3 da schemi predefiniti, se la nostra unicità venisse riconosciuta a prescindere e non avessimo il bisogno costante di rivendicarla, se non avessimo subito tutto quello che abbiamo subito a causa di questo sistema che legittima il pregiudizio e la violenza. Chi saremmo se potessimo semplicemente esistere senza essere costrett3 a dover resistere?

Giulia

Le conseguenze sociali della mascolinità tossica

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“La cultura non fa le persone. Sono le persone che fanno la cultura.”

Chimamanda Ngozi Adichie, alla fine del suo famoso discorso “We should all be feminists”, esprimeva questo concetto basilare e a tratti ovvio. La maggior parte delle persone, però, si ritrova ogni giorno a essere quello che la società impone loro invece che viceversa.

Fin dalla nascita, a seconda del sesso (che si dà per scontato essere anche il genere), si viene educat3 e cresciut3 con obbiettivi precisi stabiliti dalla cultura e dalla tradizione: i bambini vengono cresciuti per sognare in grande, primeggiare, esprimere sempre la loro opinione perché è importante, non piangere, nascondere l’emotività, il dolore e la paura. Tutto ciò ha il fine di permettere loro in futuro di prendersi le responsabilità più importanti e più difficili in qualsiasi momento, anche se non riescono o non vogliono. Alle bambine, d’altro canto, viene insegnato a essere umili, gentili, accondiscendenti, a essere future bravi mogli e brave madri, a innamorarsi senza vivere in altro modo la sessualità (che deve essere repressa), a non poter ambire a troppe cose perché incompetenti, irrazionali, vittime dei loro ormoni. Le persone generalmente non si interrogano sul riconoscersi o meno nel loro genere, perché è spesso il genere stesso a individuarle. Se è vero che il movimento femminista ha iniziato questa decostruzione sociale, ne sembra però rimanere spesso esclusa una grande fetta: quella degli uomini (generalmente bianchi, etero e cisgender).

In un articolo del New York Times di Maya Salam, si legge:

“La mascolinità tossica è il risultato dell’insegnare ai ragazzi a non esprimere apertamente le loro emozioni, a dover essere duri tutto il tempo, e che qualsiasi altra cosa diversa da ciò li rende ‘femminili’ e deboli.”

Tutto ciò ha degli effetti decisamente importanti non solo sulla vita degli uomini – ingabbiati nella loro struttura di eterni capi, forti e distaccati – ma anche su tutta la società che è quasi interamente da loro dominata. Il potere, infatti, è sempre stato detenuto sulla base del sesso e della cultura a esso associata. L’uomo, per essere tale, deve essere principalmente forte, sia nel senso fisico del termine – perché il corpo mascolino è sempre stato un corpo muscoloso – sia soprattutto nel senso psicologico e culturale. Ciò si traduce in un modo di pensare logico e razionale: egli deve sempre essere distaccato e impassibile davanti agli ostacoli più grandi, un àncora a cui aggrapparsi, il risolutore di ogni problema, un competitore accanito che non si interessa delle sue relazioni perché lo scopo della sua vita è primeggiare. Proprio per questo motivo, è lui che può e deve detenere il potere, ancora oggi strettamente connesso ai soldi: dato che l’uomo ha uno status superiore, è sempre lui a doversi occupare delle finanze familiari. Farsi pagare da una donna è fuori discussione, perché la forza si dimostra adempiendo al compito di “portare il pane a casa”, di provvedere per tutta la famiglia e farsi carico di tutte le responsabilità che l’avere maggiori finanze comporta.

Se la mascolinità tossica affligge generalmente tutti gli uomini, ci sono però forti differenze dettate dall’intersezione delle discriminazioni: questo fenomeno, infatti, affonda le proprie radici nel suprematismo bianco, nel razzismo, nella queerfobia e nell’omofobia. Per esempio, parlando di come il capitalismo degli uomini bianchi abbia cambiato la percezione della mascolinità nera, Jordanna Matlon scrive:

“[Le diseguaglianze] hanno sempre più spesso reso ‘nero’ e ‘maschio’ come termini intrinsecamente contraddittori. […] La mascolinità nera, per quanto riguarda il mercato, ha valore soltanto come cliché. I cliché, in questo senso, non sono solo personificazioni di uno stereotipo. Essi sono ‘prodotti performanti’ che incarnano le espressioni massime delle condizioni di vita – della fama o della criminalità – che sono fuori dalla sfera del lavoro salariato e che affondano le proprie radici nel consumo sfrenato.”

Dopo aver trattato dell’esclusione degli uomini neri dal capitalismo e dal mercato del lavoro in quanto sistemi fortemente razzisti, Matlon continua dicendo:

“Il fatto che l’essere ner3 è causa e conseguenza della svalutazione economica ha reso l’inclusione nel sistema patriarcale capitalista molto allettante per gli uomini neri, un po’ come vincere a un gioco truccato contro ogni probabilità.”

La mascolinità tossica nera, dunque, si discosta da quella bianca soprattutto in termini di potere: il razzismo provoca la svalutazione economica, che non risulta però essere un incentivo per la liberazione di tutt3. Anzi, viene ricercata un’inclusione nello stesso sistema da cui si viene danneggiati, crollando nella legittimazione patriarcale e nella compartecipazione capitalista.

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Gli uomini asiatici, tradizionalmente visti come “deboli” ed “effeminati” (sempre secondo lo standard dell’uomo occidentale bianco), si trovano a dover fare i conti anch’essi con la svalutazione economica e lo sfruttamento nel campo lavorativo. Questi fattori rendono evidenti le disparità e aumentano le insicurezze e la pressione, dato che la maggior parte delle donne asiatiche, per anni, è stata esclusa dal mondo del lavoro, e quindi gli uomini sono ancora oggi la principale fonte di sostentamento della famiglia. In un articolo sul The Guardian, Matthew Salesses, parlando della visione patriarcale bianca interiorizzata nel rapporto con le donne, racconta cosa significa essere un americano asiatico:

“Per gli uomini etero asiatici americani, ciò significa voler essere desiderato nel modo in cui gli uomini etero bianchi sono desiderati. Se un uomo asiatico americano riesce a ottenere l’amore di una donna bianca, allora crede di poter avere un diritto sull’America in tutta la sua bianchezza ed eterosessualità e mascolinità, dopo tutto.”

Le donne, infatti, sono sempre viste come uno degli oggetti che garantisce l’accesso agli standard della mascolinità, e quindi al potere e al ruolo predefinito dell’uomo. Per un uomo non bianco, “vincere” una donna bianca è importante per rivendicare il proprio posto sul podio del patriarcato, dato che parte già svantaggiato a causa della sua etnia.

Rimane dunque evidente la forte radice razzista, omofoba e capitalista della mascolinità tossica, intesa appunto come caratteristica, che l’uomo attribuisce a sé stesso e ai suoi simili. Essa nuoce ovviamente agli uomini, in quanto persone non libere di poter esprimere naturalmente ciò che sono e sentono, ma soprattutto alla società, che è da loro e su di loro costruita. Tutte le persone che ci vivono, vengono perciò costantemente violate e atterrite da una cultura che continua a essere attivamente assemblata su queste discriminazioni.

Beatrice